Valentina Peri
Generazione Critica: Che tipo di percorso di studi e professionale ti ha indirizzata verso gli ambiti di ricerca ai quali ti dedichi come curatrice?
Valentina Peri: Ho una formazione in antropologia culturale, mi sono specializzata in antropologia dell’arte con una tesi sull’arte contemporanea africana e la Biennale di Dakar. Nel lontano 2007, sono partita in Erasmus a Parigi, e lì ho seguito corsi all’EHESS, una grand ecole francese dedicata alle scienze umane. In seguito, ho frequentato corsi di storia dell’arte all’Ecole du Louvre a Parigi e partecipato al Master in “Curating New Media” alla University of Sunderland nel Regno Unito. Diciamo che i miei ambiti di ricerca attuali sono quindi il risultato di un mix tra osservazione partecipativa che deve molto alla mia formazione in antropologia, una grande curiosità per i fenomeni sociali e culturali contemporanei, tante letture e una buona dose di autodidattismo in vari ambiti.
L’interesse per l’arte digitale viene dalla passione per la musica elettronica, coltivata durante il periodo universitario a Bologna. Senza dubbio la porta di entrata all’arte digitale è stato per me un mitico festival bolognese che si chiamava Netmage, curato da Xing. Quando sono arrivata a Parigi ho allargato i miei orizzonti in questo ambito grazie a una scena artistica solida, istituzionalizzata e ben finanziata da vari programmi del Ministero della Cultura e della Comunicazione. Quando sono arrivata alla Galerie Charlot nel 2011, ho colto la grande opportunità di sviluppare un programma dedicato all’arte digitale in una giovane galleria che era stata fondata da soli sei mesi e stava cercando la propria identità. Dopo alcuni anni di lavoro intenso e appassionato, la Galerie Charlot si è imposta sulla scena internazionale come un riferimento essenziale del panorama e del mercato dell’arte digitale. E’ all’interno di quelle mura che ho presentato le mie prime mostre e costruito la mia identità di curatrice.
GC: Dal 2011 al 2021 hai lavorato in una galleria d’arte specializzata nell’arte digitale, con sedi a Parigi e Tel-Aviv: un arco temporale piuttosto ampio che, senz’altro, ha offerto un osservatorio privilegiato sulla evoluzione della produzione e del mercato dell’arte. Quali sono stati i progetti più significativi per tracciare una storia recente di queste pratiche artistiche?
VP: Senza dubbio il periodo chiave dell’arte digitale, la golden age se così possiamo definirla, é stato il periodo 2013-2016. Fiere specializzate, Biennali, Festival, mostre antologiche apparivano più o meno dappertutto in Europa e anche a livello internazionale. Sono gli anni dell’ “art after Internet” (Omar Kholeif), della nuova estetica (James Bridle) e dell’arte post-internet. Un periodo veramente interessante in termini di contenuto, produzione, e mercato dell’arte digitale. Euforia, interesse e grandi investimenti hanno portato sulla scena internazionale un gruppo di artisti all’epoca trentenni e che sono oggi i riferimenti internazionali dell’arte digitale (Evan Roth, Quayola, Rafael Rosendaal…)
Poi si è assistito a una sorta di rallentamento del settore intorno al 2017. Da un punto di vista istituzionale, invece è proprio verso il 2016 che si sono moltiplicate le grandi mostre dedicate all’arte digitale, penso per esempio a Electronic Superhighway da Whitechapel, Londra; Artists & Robots al Grand Palais, Parigi; o ancora New Order al MoMA NY. Ovviamente non pretendo che questa analisi sia esaustiva. Un giorno forse scrivero’ un libro su questa esperienza!
GC: Hai recentemente pubblicato “Data Dating. Love, Technology, Desire” (2021), che hai co-curato insieme ad Ania Malinowska. Atti di desiderio e pratiche di relazione sono al centro di questo saggio: come sono influenzati e come cambiano e si costruiscono in un presente tecnologico?
VP: Rispondo con una citazione del capitolo introduttivo del libro: la teoria culturale moderna censura la tecnologia per aver corrotto “l’evento dell’incontro umano”. I colpevoli sarebbero i social network e il controllo computazionale dell’incontro. Badiou, che scrive ampiamente sul collasso dell’amore a causa dei protocolli del dating online, sostiene per esempio che la politica del rischio zero, esercitata dal profiling socialmente e psicologicamente controllato ha appiattito la ricerca romantica di partner. Mentre il mistero e l’alterità sembrano scomparsi dagli appuntamenti, l’amore ha ceduto alla preminenza della disponibilità e dell’auto-presentazione. In The Agony of Eros (2017), Byung-Chul Han spiega che le tecnologie contemporanee trasformano la convivenza – intesa come desiderio di formare un ‘noi’ – in una piacevole simbiosi di esibizione di sé (una forma di ‘narcisismo reciproco’), fino al punto di ridurre a zero il proprio interesse in/per l’altro. Nell’ambiente mediatico e tecnologico, si ritiene che il romanticismo sia principalmente un’arena legata al risultato piuttosto che allo scambio.
Alcuni teorici dei media controbilanciano questa visione con affermazioni sulla possibilità di “navigare in un mondo saturo di opportunità per le connessioni sociali […] senza perdere di vista il proprio sé e di perdere di vista gli altri” (Papacharissi 2018). C’è la convinzione che “la tecnologia può aiutarci a reimmaginare e reinventare come comprendiamo l’amore e la vita” (Papacharissi 2018: n.pag.). Come sito principale della pratica della convivenza, il romanticismo ha bisogno di essere reinventato, perché domina l’espressione dell’amare e la sua legittimazione sociale. Questo è tanto più urgente in quanto le gioie e i drammi del romanticismo vengono trasferiti in contesto tecnologico con la speranza di una migliore efficienza (vedi Berlant 2012).
Forse la tecnologia aiuta a svelare i difetti culturali dell’amore romantico ?
GC: “Data Dating” è anche un progetto di mostra che è stato esposto e presentato in diversi spazi, da ZKM a Galerie Charlot a Tel Aviv: ci sono state differenze nell’accoglienza del progetto da parte del pubblico e quali sono stati gli aspetti più rilevanti, da un punto di vista curatoriale?
VP: Data Dating é stata inizialmente presentata nello spazio di Parigi, nel 2018, un momento chiave per lo sviluppo delle app di dating in Francia. La risposta del pubblico é stata davvero incredibile: alcuni visitatori mi ringraziavano per aver affrontato dei temi che restavano all’epoca tabù, o quantomeno di cui si parlava con difficoltà. Altri visitatori, di tutte le età, si fermavano a raccontare le proprie storie. La galleria si è trasformata in uno spazio di dialogo e scambio, che ha permesso di creare legami tra i visitatori e tra noi della galleria. E’ stata una delle più grandi soddisfazioni di quell’esperienza, in quanto penso che la funzione più importante dell’arte sia proprio quella di creare legami significativi e safe spaces.
A Londra la mostra é stata presentata in un contesto completamente diverso da quello di una galleria commerciale: il Watermans Art Center è infatti uno spazio polivalente e multiculturale, composto da una galleria, un cinema e un teatro e molto frequentato da bambini e adolescenti in un quartiere popolare del West London. In quel caso, ho dovuto riflettere su come creare una sorta di zona riservata o “adult zone” dove esporre alcuni lavori che potevano essere un po’ più spinti. Non volevo però creare una barriera invalicabile per il pubblico, creare una frustrazione o un’attesa che non corrispondeva alla natura dei lavori in mostra che, sebbene relativi alla pornografia online, affrontavano questi temi in modo critico e creativo. In quel caso ho optato per una tenda fucsia (che era il colore dell’identità visiva della mostra) a filo, trapassabile, attraverso la quale si intravedevano i lavori, ma che comunque creava una barriera visiva per i minori di 16 anni. Il dispositivo che inizialmente mi aveva distrubato, proprio perché l’intento della mostra era quello di superare certi tabù e moralismi, si è finalmente dimostrato un ottimo dispositivo scenico, che creava un’atmosfera “sexy” invece che “oppositiva”.
A Tel Aviv ho presentato un video dell’artista israelo-argentina Inés Moldavsky “The Man behind the Wall”, che racconta l’uso delle app di dating nel particolare contesto israelo-palestinese. La geolocalizzazione attraverso la quale queste app funzionano non rispetta ovviamente la frontiera fittizia creata dai muri e barriere in questi territori. Nel video l’artista incontra quindi vari uomini palestinesi attraversando la frontiera vietata ai cittadini israeliani grazie alla sua cittadinanza argentina e pone interrogativi sull’amore, l’intimità e le barriere fisiche e culturali in un contesto di guerra.
GC: La tua esperienza professionale si estende a un network europeo, ma, concentrandosi sulla situazione italiana, come osservi l’attitudine di istituzioni italiane (pubbliche e private) rispetto alla ricerca e alla promozione dell’arte digitale?
VP: La mia esperienza professionale si è essenzialmente sviluppata in Francia, per cui non ho mai avuto un solido contatto con il contesto italiano. Forse anche questo è di per sé significativo: a parte qualche recente invito a dei talks online (tra cui STILL aLIVE HOSTS con Marco Signorini) non ho avuto alcuna esperienza diretta con il mondo delle istituzioni italiane, né come curatrice indipendente, né quando dirigevo la Galerie Charlot.
Ho invitato dei curatori italiani in galleria (Filippo Lorenzin, Kamilia Kard e Fabio Paris) e alcuni artisti italiani, penso per esempio a Quayola. Ho collaborato principalmente con il Link Art Center di Brescia, che ha chiuso le sue porte un paio di anni fa dopo 10 anni di iniziative interessanti e di grande spessore e creatività.
Ci sono vari Festival di qualità che competono sulla scena internazionale come per esempio Romaeuropa o il Node di Modena. Recentemente sono state aperte realtà interessanti come il Meet | Digital Culture Center e la galleria Novo, entrambe a Milano.
Rispetto ad altri contesti europei e internazionali, la promozione e diffusione dell’arte digitale, così come la sua istituzionalizzazione, mi sembra restino abbastanza timidi in Italia.
GC: Prezzo, fruizione e conservazione, sono tre elementi centrali per il collezionismo e per il mercato in generale. Nella tua esperienza, il contesto italiano delle gallerie private e delle fiere come sta osservando e gestendo questi elementi sostanziali dell’arte digitale?
VP: Le numerose gallerie italiane che partecipano alle fiere internazionali non mi sembra stiano dando uno spazio significativo all’arte digitale, quindi tantomeno a una riflessione sul suo prezzo, fruizione e conservazione. Quello che posso dire è che di certo la questione della conservazione è una sfida molto interessante e appassionante alla quale contribuiscono tutti coloro che lavorano in questo ambito.
GC: Rimanendo sempre nel tema, cosa pensi a proposito della nuova tecnologia NFT applicata al mondo dell’arte?
VP: E’ un tema veramente molto complesso, sono state spese molte parole e molto “inchiostro” con grandi improvvisazioni da parte degli “esperti” dell’arte contemporanea nel tema. La crypto economia e i processi della blockchain sono immersi in una sorta di nebulosa per molti, compresi gli artisti. Il mio primo approccio con gli NFTs l’ho avuto grazie a uno degli artisti che stavo presentando in galleria al momento dell’esplosione del fenomeno verso la fine di gennaio 2021, che mi ha introdotto a quel mondo e mi ha spiegato le sue basi e il funzionamento. Sono molto grata a Nicolas Sassoon per il tempo che ha speso inviandomi link e aggiornandomi sull’evoluzione di quel mercato. Dalla sua esperienza e dai feedback di altri artisti (penso per esempio a Albertine Meunier, Addie Wagenknecht, Quayola) posso dire che trovo quella tecnologia un canale molto interessante per gli artisti da un punto di vista della “facilità” e immediatezza della vendita, che si effettua senza intermediari – a parte la commissione della piattaforma che presenta gli NFTs. Da un punto di vista artistico, non mi sembra che ci sia nulla da segnalare: i valori estetici e simbolici tradizionali del mercato dell’arte sono del tutto sospesi. Ad ogni modo guardo con molta curiosità al mondo degli NFTs, e sono molto contenta per gli artisti che hanno saputo cavalcare l’onda al momento giusto, e che hanno sostenuto altri artisti con meno visibilità. Sono sicura che la bolla non si é ancora sgonfiata. La questione dell’impatto ecologico e umano che solleva la tecnologia del proof-of-work di alcune criptomonete come ethereum resta comunque un elemento molto spinoso.
GC: Il 22 ottobre ha inaugurato “SWIPE RIGHT! Data, Dating, Desire”, mostra collettiva con artisti internazionali da te curata presso iMAL, Bruxelles. Come la mostra prosegue la riflessione iniziata con Data Dating? Puoi anticiparci qualcosa?
VP: Con molto piacere! Data Dating è una mostra che riflette sull’amore all’epoca di Internet e che cerca di mostrare vari elementi di questo universo, come per esempio l’amore mediato da dispositivi tecnologici, la pornografia online, la violenza verbale degli scambi anonimi, la costruzione del sé tramite i social network, la mercificazione dell’amore attraverso i siti e le app di incontri, e metteva in guardia rispetto all’uso che queste industrie fanno dei dati degli utenti. SWIPE RIGHT! prosegue questa riflessione, per cui si ritrovano vari temi già presenti in Data Dating, ma fissa l’attenzione in particolare sulla condizione di distanziamento sociale e di non-contatto provocata dalla pandemia. Non ci sono dati precisi sul fenomeno, ma i vari lockdown hanno spinto molte persone a tentare nuove esperienze amorose e intime nel mondo digitale. La mostra interroga quindi questi nuovi processi e rapporti al corpo in relazione ai dispositivi tecnologici, la ricerca spesso infinita di partner favorita dall’economia libidinale del dating online, l’ossessione per gli schermi, le identità definite da applicazioni, profili social, passwords…
La mostra SWIPE RIGHT! Data, Dating, Desire esplora queste nuove direzioni del romanticismo contemporaneo e cerca di mappare le connessioni inedite tra desiderio, emozioni, tecnologia ed economia createsi nel mondo della post-pandemia.
Valentina Peri è una curatrice, critica d’arte e autrice che vive e lavora a Parigi. Il suo focus di ricerca risiede nel ruolo della tecnologia nella cultura contemporanea, con particolare attenzione all’amore e all’intimità nell’era digitale, alla storia dei media e delle tecnologie all’epoca dell’antropocene.
©Valentina Peri e Metronom, 2021
12/11/2021