26-10-15

Thomas Kuijpers

Metronom: Dichiari di essere interessato alla “frizione tra la versione della realtà trasmessa e la posizione che questa occupa nella vita di tutti i giorni”. Come pensi che la ‘ripetizione’ di azioni, immagini, slogan… possa influenzare la nostra comunicazione di base?  

Thomas Kuijpers: Penso che se basiamo la nostra comunicazione (o parti di essa) su immagini ripetute, slogan etc. – ad un certo punto diventerà complicato ragionare al di fuori di quella ‘scatola’ di immagini e slogan che ci siamo costruiti. La comunicazione diventerà una spirale continua e protratta verso l’interno, con la sola referenza dei suoi paradigmi. Questo processo potrebbe essere paragonato alla riproduzione dei cani; se non si aggiunge nuovo sangue o nuovo DNA ad un certo accoppiamento, questo non va a buon fine, pur continuando a forzare il processo. Penso che scrittori, artisti visuali, musicisti e altri creativi rivestano un ruolo importante e speciale in questa transizione, garantendo che nuovo DNA sia sempre portato nel nostro spettro di comunicazione.

Le tue riflessione spesso partono dalla raccolta di vari materiali, da ritagli di giornale, a biglietti, email, elementi che trovi casualmente durante la tua giornata. Quanto è complesso il processo di selezione e utilizzo di queste informazioni? Le consideri una sorta di ‘archivio contemporaneo’?

A volte colleziono materiale attorno ad un tema specifico di mio interesse, ma non è ancora così chiaro quale aspetto particolare sia quello che muove l’interesse. In questo caso la selezione parte in modo massivo e molto ampio. A volte trovo quello che sto cercando, altre no – in questi casi il materiale termina in (poche) scatole all’interno del mio archivio fisico. Altre volte sono più concentrato e so esattamente quale aspetto, ad esempio una notizia di narrativa contemporanea, mi interessa. In questo caso funziona all’inverso e solo le cose che sono direttamente connesse con questo interesse sono raccolte e conservate. Conosco a memoria quasi tutte le parti del mio archivio, per la maggior parte fisico. La fisicità di questo archivio mi aiuta a connettere diversi punti tra diverse storie, vedere parallelismi e similitudini che possono considerarsi essenziali per la ricerca. È un po’ come scrivere qualcosa che non dovresti dimenticare. Se salvi il documento solo nel tuo hard disk potrebbe essere facilmente dimenticato, mentre l’atto del renderlo fisico attraverso lo scrivere ti induce a ricordarlo. Questo processo è paragonabile al modo in cui  considero il mio archivio.

Nella tua serie Bad Trip descrivi il tuo sentimento di “paranoia” generato da un estremo consumo di informazioni. Hai deciso di dedicare un periodo della tua vita seguendo tutti i canali e le news nella dirompente alluvione di impulsi mediatici. Cosa ti ha condotto a scegliere in ultima istanza il medium specifico della fotografia e del video come risultato finale della tua ricerca?

Il progetto è partito più o meno nel momento in cui Trump è stato eletto. Ero come confuso da questa grande idea ed ero veramente sorpreso per il risultato. Non riuscivo a credere che così tante persone avessero votato per quell’uomo. E come i sondaggi fossero errati. Avevo forse trascorso troppo tempo nella mia ‘bolla privata’? Cosa mi ero perso? Come era potuto succedere? Da un giorno all’altro è stato introdotto il termine ‘fake news’, trasformando improvvisamente ognuno di noi in un critico giornalistico (“media-critic”). Perfino mia madre aveva iniziato a dubitare di ciò che era pubblicato sui quotidiani.

Poiché molti dei miei lavori fino a quel periodo erano riferiti ad analizzare come un evento reale venisse visualizzato, scritto e presentato al grande pubblico – e tutte le difficoltà conseguenti a questo processo – dovevo ripensare a cosa fare ora. Il primo passo per me è stato tentare di capire perché questo era accaduto. Su quali informazioni le persone che avevano sostenuto Trump (e nel mio paese, quelle che erano quasi arrivate a scegliere il ‘Trump Olandese’: Geert Wilders) avevano basato il loro voto?

Per quattro mesi mi sono immerso nel mondo delle notizie online della macchina di informazioni della ‘destra alternativa’ (“alt-right”), e ho letto ogni cosa che loro leggevano, guardato ogni video che postavano, approfondito ogni ricerca che presentavano per sostenere la loro causa. Prima di iniziare questo, certo, avevo già provato una sensazione di paranoia, per esempio quando entravo in una metropolitana affollata, pensando: “se un malintenzionato dovesse entrare ora, saremmo tutti spacciati”. Ma questi tipo di pensieri capitavano molto raramente. Alcune settimane in questo periodo di ricerca e avevo iniziato a notare che questi momenti di paranoia diventavano sempre più frequenti nel mia routine quotidiana. Per una festa avrei avuto dei flash da ‘Bataclan’, pensando a dove mi sarei potuto nascondere quando avrebbero colpito il pubblico. Quando vedevo un camion attraversare il centro storico più velocemente del solito, avrei pensato il peggio. I flash erano sempre brevi e strani, completamente irrazionali. Per cui ho deciso si registrarli, come una sorta di ‘testimonianze personali’ di questi momenti. Queste registrazioni, per la maggior parte fotografiche, sono state riportate nel mio studio dove ho ri-tracciato nel mio archivio quello che avevo letto e sentito precedentemente che poteva essere considerato come una costruzione a ritroso dei tasselli che avevano alimentato la mia paranoia; per razionalizzare cosa fosse accaduto in quei momenti. Credo che la fotografia, nella sua ambiguità, sia il mezzo più adatto per questo momento, per la sua inestricabile connessione con la realtà, che – per il momento – ho perso in una nuvola di paranoia.

La tua ultima serie Decor è una ricerca visiva sulle reazioni che le immagini possono ancora generare nel mondo contemporaneo. Hai studiato la propaganda dell’ISIS, la loro attitudine verso la telecamera e il loro linguaggio. Perché hai deciso di utilizzare un paesaggio vuoto e deserto come tuo personale mezzo di comunicazione? Come mai la scelta del riferimento al termine ‘decorazione’?

Il termine ‘decor’ in questo contesto è riferito allo “scenario” come si usa nel cinema e nel teatro. Un fondale, una situazione in cui la scena accade. La serie è stata intrapresa all’interno del progetto ‘Foam Farm’, una collaborazione tra me e quattro artisti di differiti discipline. Ci è stato chiesto di parlare del ruolo dell’immagine nella nostra società contemporanea, e da questo dialogo creare un lavoro. Dopo alcune settimane di riflessione siamo giunti alla scelta del titolo ‘we know it sells, but does it hurt?’ (‘sappiamo che questo vende, ma fa male?’) – commentando il modo in cui la visualizzazione del dolore (in tutte i suoi differenti significati) sia diventata una strategia di marketing. Questo per me  è stato l’inizio dell’esperimento, partendo dalla mia presa di coscienza di come le immagini siano per loro stessa natura e il più delle volte incapaci di comunicare emozioni in un livello più profondo, poichè io stesso tendo sempre ad approcciarle da un punto di vista professionale ed è quasi impossibile evitarlo. Il contenuto finisce razionalizzato e analizzato prima che una reale risposta emotiva possa prendere piede. Dal momento che sono meno abituato a ricevere e riflettere sulle emozioni testuali, la risposta ad un’emozione trasmessa da un testo è di solito molto più forte e meno superficiale. Per questo ho realizzato una serie di lavori, paesaggi senza persone; scenari dai più orribili e cruenti video visti negli ultimi anni: video di propaganda realizzati dall’ISIS. Dopo aver visto frammenti di questi video, ormai insensibile, non essendo così disturbato a livello emozionale come avrei immaginato, ho iniziato a cercare scrittori, che potessero produrre una nuova sceneggiatura che riempisse questi scenari, con il desiderio di provare se questa combinazione potesse evocare un nuovo sentimento che, per me, fosse più forte delle immagini originali. Un tentativo di superare l’handicap della super-razionalizzazione delle immagini, traducendole in parte in un nuovo formato. Questi scenari vuoti sono stati poi stampati su enormi pezze di tessuto impalpabile e semi-trasparente, con ancora un riferimento al teatro, e presentati insieme ad un piccolo libro che raccoglie i testi dei 45 autori che hanno contributo a scrivere ciò che ora riempie lo scenario.

In una delle tue serie precedenti, Gesture (2015), eri già affascinato dall’analisi politica e sociale del momento in cui viviamo, ma in un certo modo hai creato un lavoro più connesso a te stesso, più deliberatamente personale che ti ha portato a scegliere il disegno come medium. Come descriveresti la tua attitudine verso la narrazione e la rappresentazione? Senti che il consumo di immagini a cui siamo soggetti oggi possa ‘distrarci’ in qualche modo dalla comprensione di ciò che tu chiami ‘realtà’?

Ritengo che Gesture sia uno degli ultimi progetti in cui ho provato ad essere molto analitico, senza che la mia personale percezione avesse un grande impatto. Certo, questo è quasi impossibile essendo un autore. Ma il tentativo di creare qualcosa di chiaro e direi con attitudine scientifica, mi ha portato a disegnare delle figure di strette di mano. Volevo solo riportare il gesto – la stretta di mano – con meno ‘rumore’ possibile attorno. Per questo ho deciso di rimuovere ogni elemento di contesto ritagliando in primis le strette di mano; ma questo non era abbastanza. Poi cancellando ogni elemento attorno a loro, ma lo stesso troppo contesto era presente. Alla fine ho  deciso di realizzare un disegno formato da una sola linea. Penso sia la rappresentazione più essenziale che potessi ottenere. L’urgenza di eliminare più contesto possibile funzionava per me come una metafora esagerata verso i nuovi media, in particolare verso la fotografia giornalistica, in cui questo ‘gioco politico’ occupa un ruolo di rilievo. Una scena viene catturata da un fotografo, l’immagine di quella scena finisce all’interno di una redazione, qualcuno scrive un’analisi che accompagna l’immagine e questa è la versione di quel momento che è presentata noi, il pubblico. Il gesto esiste solo per essere catturato dalla macchina fotografica e per comunicare un certo messaggio al mondo. Quando ho presentato questi disegni composti da linee quasi anonime a esperti internazionali di linguaggio del corpo per un’analisi, la maggior parte di loro mi hanno scritto che era presente troppo poco contesto per realizzare un’analisi utile di quel particolare momento.

Dopo questo progetto ho sviluppato un interesse verso il modo in cui questi tipi di media-narrativi possono influenzare le nostre vite quotidiane, come ho ricercato nella serie Bad Trip. La mia conclusione personale generata da questo progetto è che queste realtà virtuali che incontriamo quotidianamente diventano parte della nostra vita. Ciò che hai affermato nella domanda ‘possono ‘distrarci’ in qualche modo dalla comprensione della ‘realtà’, è un modo diverso di vedere rispetto al mio punto di vista. Non penso siano realtà separate, ma fuse insieme. Quello che vedo in TV adesso, mi accompagna fuori sulla strada. Non è una distrazione, è solo una parte di come il mondo è adesso. Penso sia impossibile distinguere queste ‘realtà’, e non avrebbe nessun senso farlo, perché nella pratica non esistono (non più?). Ma dato che il modo in cui riceviamo le informazioni è così personalizzato al giorno d’oggi, abbiamo bisogno di essere bene attenti nel comprendere che ognuno là fuori cammina con un diverso set di realtà. Non sono certo di come questo sia differente dall’era pre-Internet, ma sono molto sicuro che nel nostro mondo contemporaneo le miscele di diverse realtà che percepiamo sono molto più complesse di quanto lo siano mai state. Penso che questo sia anche il motivo per cui ho permesso questo approccio personale nei progetti ai quali sto lavorando in questo periodo, perché lo vedo come una parte importante del paradigma che sto cercando di comprendere.

Hai appena vinto il Premio Grolsch Unseen Residency e trascorrerai due mesi a Stoccolma nella primavera 2018. Potresti raccontare qualcosa in più del tuo progetto di presentazione In search of Equality / In search of Utopia’?

Dove il resto d’Europa (perfino possiamo dire il ‘mondo occidentale’) è più preoccupato a contemplare la “distopia”, la Svezia e i suoi paesi vicini non hanno mai perso di vista il concetto di “utopia”. E per ora, mentre il mondo sembra cadere a pezzi, loro sono più vicini a raggiungere questo di tutti gli altri nel mondo. Il progressivo processo di creazione di leggi basate sulla scienza e gli studi sociali, combinato allo stato socialista che il paese ancora brama di divenire, ha condotto al raggiungimento di una struttura sociale avanzata – sperimentale ma spesso di successo. L’uguaglianza per tutti gli Svedesi è al momento uno dei cardini dell’agenda politica, visto come un ultimo passo verso la libertà dell’individuo.
Sono molto interessato al modo in cui questo impegno del governo colpisce i residenti di uno stato e come le persone si sentono a riguardo. Ho recentemente intervistato alcuni cittadini svedesi e la tendenza generale è buona, ma alcune volte la frizione tra questi ideali ben studiati e la situazione della vita quotidiana diventa sbilanciata. Questa frizione sarà il centro della mia ricerca.
Per fare questo, partirò chiedendomi se questa lotta alla uguaglianza sarà applicata anche a me, come residente temporaneo. Potrò, da immigrato, diventare uguale ai cittadini svedesi a fianco a me? Vorrei usare questo approccio personale come un mezzo per raccontare una storia più complessa che ricerca l’equilibrio tra libertà personale – che è garantita dallo stato – e i confini di questa libertà. Intervistando le persone del luogo, i giudici, altri immigrati e sociologi proverò a raccogliere ingredienti da usare per visualizzare in concreto queste tematiche. Sono incerto riguardo il risultato finale, ma in altri progetti sono già partito da elementi molto astratti, cercando di catturare una struttura sociale quasi invisibile. Di solito questo mi conduce ad una serie di piccoli esperimenti in qualche modo connessi con la questione centrale, non afferrandola del tutto. Al pari della vita reale.

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Thomas Kuijpers (1985, Helmon NL) è un artista visivo. Ha studiato fotografia al AKV St. Joost a Breda, Paesi Bassi. Il suo lavoro è stato presentato in numerose mostre collettive e personali, in istituzioni pubbliche e private, come FOAM Museum; De Kunsthal, Rotterdam; Stedelijk Museum, Amsterdam. Premiato nel 2017 con il Metronom Book Award, durante il Festival Fotopub a Novo Mesto (Slovenia), è uno degli artisti selezionati per FOAM Talent 2017 Plat(t)form 2018 – Fotomuseum Winterthur. Alcuni suoi lavori sono stati acquisiti dalla collezione dello Stedelijk Museum, Amsterdam.

Cover image: © Thomas Kuijpers, 26.10.2015, dalla serie Decor, 2017

17/01/2018