SIMONE MENEGOI
GC: Curatore, critico, docente… come definiresti il tuo percorso professionale e che cosa, tra le diverse esperienze, ti ha portato a occuparti di arte contemporanea?
SM: Cerco di approcciare l’arte attuale (che non è necessariamente quella prodotta oggi) da più angolazioni diverse, facendo del mio meglio affinché si completino a vicenda. Insegnare mi permette di ampliare le mie conoscenze; scriverle, di disporle in ipotesi critiche; organizzare mostre, di testare quelle ipotesi nella pratica.
Sono arrivato all’estetica del contemporaneo da vie diverse da quelle dell’arte visiva. La mia prima passione è stata la musica. Ascoltavo i compositori minimalisti americani ben prima di sapere chi fossero Donald Judd e Carl Andre.
La scelta di fare dell’arte una professione è arrivata alla fine dell’università. All’inizio volevo essere solamente un giornalista e un critico; l’occasione di curare una mostra piuttosto grande, nel 2005, mi ha fatto cambiare idea.
GC: Qual è stata la prima mostra che hai curato e dove? Ripensandola ora, oggi, cosa si dovrebbe -se si dovrebbe- cambiare e perché?
SM: Il mio vero e proprio esordio come curatore è appunto la mostra del 2005 che ho nominato. Si chiamava “Scultura leggera” e fu realizzata in uno spazio privato, a Vicenza, grazie alla generosità di un mecenate. Era una mostra ambiziosa, di taglio museale, con artisti importanti (Wolfgang Laib, Christiane Löhr, Hans Schabus, Gabriel Orozco, Rachel Whiterhead, per citarne solo alcuni). Si rivolgeva già a un ambito su cui lavoro ancora adesso: il dialogo fra la scultura contemporanea e altri media (fotografia, video, performance, disegno, suono). I suoi limiti erano quelli delle mie conoscenze di allora; e il fatto, forse, di non aver valorizzato a sufficienza la dimensione sociale e politica delle opere.
GC: Critico vs curatore: qual è il ruolo oggi del critico d’arte e che spazi occupa rispetto a una mostra, un festival o una biennale?
SM: Mi sembra che la critica sia in una situazione da riserva indiana. È schiacciata fra la cronaca minuta delle mostre e degli eventi, da una parte, e la teoria filosofica dall’altra, che continua a orientare le scelte di artisti a curatori anche quando non riflette specificamente sull’arte. (Vedi le fonti citate da Cecilia Alemani per “Il latte dei Sogni”). Con qualche rara eccezione (soprattutto anglosassone) non è più l’arbitra del gusto e del valore; a quello ci pensano galleristi, curatori e collezionisti. È una perdita grave, perché lascia campo libero all’arbitrio del mercato, alle mode effimere, alle celebrità costruite sul numero di like e visualizzazioni.
GC: Maurizio Cattelan ha dichiarato qualcosa del tipo ‘la mia notorietà non eguaglierà mai quella di un terzino della Sampdoria’, oltre la provocazione, è ancora così vero che l’arte contemporanea occupa una nicchia?
SM: È sempre meno vero, numeri alla mano. Certo, se il termine di paragone è il calcio, allora temo che sia una sfida ardua, perfino per il famosissimo Maurizio…
GC: Fondazioni private, mecenatismo d’azienda, festival, premi e residenze… il sistema dell’arte contemporanea in Italia sta vivendo, a dispetto o nonostante la situazione pandemica, un momento di grande vitalità. La questione della sostenibilità della progettazione (e della produzione) artistica è allo stesso tempo sempre più centrale: si osserva un sistema museale pubblico in difficoltà rispetto a realtà private concorrenziali per attività di ricerca e di selezione di mostre e iniziative. Credi questa sia una tendenza destinata a durare nel tempo, avviando un mecenatismo strutturato, o che potenzialmente si esaurirà?
SM: Dopo venticinque anni di lavoro nell’arte contemporanea in Italia ho imparato a non rallegrarmi particolarmente all’annuncio dell’apertura di un nuovo spazio per l’arte contemporanea, che sia pubblico o privato: ciò che è difficile non è aprirne uno, ma mantenerlo aperto nel tempo con fondi e una programmazione adeguati. Ed è qui che molti cadono: per mancanza di motivazione, di una disponibilità economica sufficiente, di una pianificazione lungimirante. Ripeto, vale sia per il pubblico che per il privato. Quanto alla proliferazione di spazi privati, da un lato arricchisce e diversifica il panorama delle istituzioni italiane per l’arte contemporanea, asfittico rispetto ad altri paesi europei; dall’altro, però, sottrae fondi preziosi alle magre finanze dei non molti musei pubblici del nostro paese. A volte ne vale la pena, a volte no. In qualche caso, il mecenate sinceramente desideroso di promuovere l’arte contemporanea nel nostro paese farebbe meglio a sostenere il museo della sua città o della sua regione, piuttosto che crearne uno nuovo.
GC: Sei dal 2018 direttore di ArteFiera a Bologna: il tuo è un punto di osservazione privilegiato sul mercato dell’arte, italiano e internazionale. Come definiresti oggi, nel 2022, il ruolo e gli obiettivi di una galleria d’arte rispetto a artisti, collezionisti e istituzioni? Quali sono, a tuo parere, i meccanismi di sostenibilità e le caratteristiche che ne determinano il successo?
SM: Affaticate dalla pandemia, insidiate dallo strapotere delle case d’asta, le gallerie rimangono nondimeno uno snodo fondamentale di quello che chiamiamo il sistema dell’arte. Quando si occupano di contemporaneo, fanno scouting, sostengono gli artisti con la produzione di opere e mostre (anche destinate agli spazi pubblici), tessono contatti fra gli artisti e gli altri attori del sistema. Quando lavorano sull’arte storicizzata, creano e gestiscono gli archivi degli artisti, ne promuovono la conoscenza, sono referenti indispensabili per le mostre di taglio scientifico su di loro. (Tutto ciò, ovviamente, nei migliori dei casi).
Penso che gli obiettivi di fondo siano gli stessi per ogni galleria, indipendentemente dall’ambito. Una galleria deve darsi un profilo coerente e riconoscibile in termini di proposte, trovare il proprio pubblico e legarlo a sé, dialogare con gli attori del sistema che possono diventare alleati o “compagni di strada” (istituzioni pubbliche e private, critici e curatori, fiere).
GC: ‘Le fiere devono svolgersi in presenza. I collezionisti vogliono vedere le opere dal vero e avere occasione di confrontarsi con gli artisti. Le fiere digitali sono una risposta alle limitazioni imposte ma in futuro non saranno una opzione… ‘ il mercato digitale e digitalizzato delle opere d’arte, digitali e non, sembra però essere una realtà con la quale è d’obbligo confrontarsi. Come, a tuo parere, questa area relativamente nuova e in espansione del mercato dell’arte, gli NFT, si relaziona con quella tradizionale (fiere, aste) al di là degli aspetti speculativi?
SM: Al momento non è facile vedere al di là degli aspetti speculativi legati agli NFT; del resto, la speculazione costituisce la ragione d’essere stessa del sistema sui cui si basano (che, lo ricordo, è nato per garantire delle valute digitali). Le eccezioni ci sono, beninteso, ma per me sono una minoranza.
La presenza di opere NFT nelle fiere al momento è marginale; probabilmente si espanderà, ma fatico a immaginare che assumerà un ruolo centrale, se non altro perché parliamo sempre e comunque di opere digitali, e l’arte digitale finora è sempre stata una nicchia. Le cose sono cambiate da quando esiste la blockchain; ma resta comunque difficile appassionare il collezionista medio a un’opera che può vedere solo su uno schermo, depositata in un super-server di cui non conosce l’ubicazione, e che consiste, in ultima analisi, in una sequenza di bit.
GC: Bologna e ArteFiera, un sodalizio virtuoso che storicamente ha accolto, sostenuto e messo a sistema la vitalità e le esperienze articolate di una città che è sempre stata un centro di produzione importante nell’ambito delle arti e aperta alle ricerche e alle proposte più sperimentali. Il nutrito e articolato programma di ArtCity lo dimostra ancora oggi. Ma quali sono i punti di forza di Bologna oggi e in relazione a un sistema europeo di città d’arte e di cultura?
SM: Bologna è una città di provincia che negli ultimi otto-dieci anni si è impetuosamente internazionalizzata: è stata “scoperta” come meta turistica a livello mondiale (un fenomeno inedito, impensabile quando frequentavo la città come studente universitario fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta) e ha una popolazione studentesca che si è aperta al mondo intero. Percepisce molto più di prima la necessità di avere una propria identità specifica da giocare sullo scenario europeo, e l’ha trovata nell’architettura storica (i celebri portici, diventati patrimonio Unesco), nella cucina, nell’arte del passato e, per fortuna, anche in quella del presente. C’è a Bologna una “tradizione del contemporaneo” (dall’architettura e dal design degli anni Sessanta e Settanta alla performance, alla fiera stessa, una delle prime in Europa) che va ricordata e coltivata. Spero che la città vorrà puntare sempre di più su questa caratteristica del suo DNA culturale.
GC: Teatro, cinema, musica… sono contesti in cui il sistema di produzione e di fruizione si muovono su network internazionali che contribuiscono alla sostenibilità e alla circuitazione al tempo stesso di spettacoli, concerti e audiovisivi. Il sistema dell’arte sembra essere refrattario a questo sistema: poche sono le esperienze di ‘ condivisione’, limitate a grandi eventi espositivi o, più di recente, progetti di sostegno ai giovani artisti sostenuti grazie a fondi europei o un ‘sistema’ di gallerie nato in epoca pandemica più simile però a una tendenza protezionistica che di vera progettualità. Cosa rende così difficile la collaborazione tra soggetti che, sulla carta, dovrebbero avere obiettivi comuni?
SM: Certo, si potrebbe fare di più in termini di condivisione e circuitazione di iniziative fra istituzioni, gallerie e altri spazi per l’arte. I network dovrebbero essere più capillari e più efficienti; la collaborazione dovrebbe diventare una prassi regolare. Ma bisogna anche considerare la natura dei prodotti culturali di cui stiamo parlando. Un conto è distribuire un film; un altro uno spettacolo teatrale, che infatti ha, di solito, circolazione ben più limitata; e un altro ancora far girare una mostra, magari fra spazi molto diversi fra loro in termini di capienza, budget, taglio della programmazione. Anni fa avevo collaborato con il collega americano Chris Sharp alle prime fasi di un progetto espositivo che collegava alcune istituzioni europee, sia pubbliche che private. Non era una mostra itinerante; era un progetto unitario, con un’idea e un titolo unitario, ma composto da una serie di mostre molto diverse fra loro, tanto quanto lo erano le istituzioni che partecipavano. Ci era sembrato più efficace e sensato lavorare così, piuttosto che cercare di far girare la stessa mostra e dovere ogni volta cambiarla, magari in modo drastico, per adattarla al contesto.
GC: C’è un progetto nel cassetto di Simone Menegoi curatore che non è stato possibile realizzare? Perché?
SM: Ce ne sono tanti, e non ho perso le speranze di realizzarne almeno uno o due. Proprio per questo, non li svelerò.
12/05/2022