RACHEL DEDMAN
>Metronom: sei una curatrice e scrittice indipendente che vive e lavora tra Beirut e Londra, città dove sei nata. Facendo riferimento al contesto artistico e curatoriale, quail sono a tuo parere le principali differenze e punti di contatto tra questi due luoghi geograficamente e culturalmente molto lontani?
>Rachel Dedman: La natura del mondo dell’arte contemporanea è che puoi sederti in una galleria di cubi bianchi ed essere quasi ovunque sul pianeta, ma indubbiamente Londra e Beirut sono posti molto diversi. La scala delle città è molto diversa e l’ambiente artistico la riflette: quello di Beirut è piccolo, contenuto e incestuosi, il che può renderlo stimolante, ma allo stesso tempo estenuante. Il panorama artistico di Londra è molto più ampio e più commune che le cose si percepiscano come più equilibrate. Vivere tra due luoghi differenti è in realtà una cosa recente per me, dal momento che ho vissuto in modo abbastanza permanente a Beirut dal 2013, con periodi di tempo in Palestina. Essendo ritornata a Londra, mi sto riadattando a come la sua enormità renda la spontaneità quasi impossibile. Indipendentemente da dove mi trovo, l’approccio che applico alla mia pratica non tende a cambiare. Che si tratti di scrivere, curare o organizzare, il mio lavoro è orientato alla ricerca, investito nel potenziale politico dell’arte e guidato dalla conversazione con artisti, archivi o entrambi. Avevo 23 anni quando mi sono trasferita in Libano, quindi la mia pratica è stata certamente modellata dalle condizioni e dal discorso locali. Naturalmente sto generalizzando, ma nella mia esperienza, artisti e curatori a Beirut hanno molta meno paura di essere politici, e di impegnarsi con problemi e condizioni globali, piuttosto che a Londra.
>M: polycephaly.net è la piattaforma che hai fondato, insieme all’artista Lynn Kodeih. Polycephalyviene definito come “una piattaforma e un progetto che esplora l'(in)abilità dell’arte di “fare” politica […] esaminando come la politica possa essere più o meno accesa dalla pratica artistica e curatoriale”. Potresti dirci di più su come viene sviluppato il programma e quali sono i principali argomenti che stai affrontando, tenendo presente la definizione appena riportata?
>RD: Polycephaly è nato da una certa frustrazione che Lynn e io sentivamo quando discutevamo della relazione tra arte e politica, in particolare nel contesto di Beirut. Guardando la guerra siriana svolgersi, sapendo cosa sta succedendo in Palestina, ci siamo ritrovate a volere che il nostro lavoro potesse lasciare il segno, qualunque cosa questo singifichi, in risposta alle urgenze del mondo reale. Questo era sia un desiderio ingenuo e naturale, credo, guidato da un senso di colpa latente nei confronti del privilegio e dell’impotenza insiti nella natura dell’arte stessa. Fondamentalmente, siamo interessati a capire se sia possibile che arte / curatela / critica sostengano qualcosa che meriti di essere tenuto in considerazione, o che mettano qualcosa di “reale” in gioco, quando in realtà queste pratiche sono così spesso rese fallaci e complicate dai sistemi e le condizioni che le ostacolano: mercato, capitale, disuguaglianza, conflitto. Polycephaly, che significa “multi-testa”, divenne una piattaforma per iniziare a pensare a tutto questo, più o meno direttamente. Io e Lynn invitiamo persone stimolanti (per lo più artisti, scrittori e curatori) che conosciamo, o vorremo conoscere, per iniziare una dialogo con noi. Queste conversazioni raramente si svolgono come immaginiamo, si diramano invece in direzioni affascinanti, aprendo a galassie di idee correlate. Solo una parte di questi incontri si sviluppa in “lavori” per il sito; alcuni rimangono solo in forma di discussione continuate davanti un caffè o per un e-mail. Lavoriamo abbastanza lentamente, a causa di fondi limitati; abbiamo anche una sovvenzione dal Fondo arabo per l’arte e la cultura dal 2015. Delle sei “puntate” che sono uscite fin ora, o che saranno lanciate presto, un rimando interessante che ho notato tra loro è quella della rappresentazione e della sua politica. Dall’intervento di Walid Sadekon sul consumo nell’arte e nella letteratura nel XVI secolo, a Daniele Genadry che ricerca una nuova immagine, una nuova visione in pittura, alla piattaforma espositiva radicalmente libera di Octavian Esanu – diversi legamoi con la politica della visibilità e il continuo operato dell’artista.
>M: La storia rivela che le arti e la politica hanno una relazione molto lunga: hai ideato il progetto Radio Earth Hold, commissionato da Qalandiya International e supportato dal sito web di Serpentine, che utilizza l’unione sovranazionale offerta dal suono e dalle frequenze radio per scoprire una nuova forma di solidarietà globale. Secondo te, l’arte dove potrebbero trovare il giusto contesto per praticare / sperimentare formule e azioni che abbiano un impatto sociale?
>RD: Onestamente non so in quale forma o contesto l’arte possa maturare il maggior potenziale per avere impatto sociale. Ma penso che i lavori collettivi rappresentino le component più impegnate, ambiziose e produttive. Radio Earth Hold è un progetto collettivo che Arjuna Neuman, Laure de Selys ed io abbiamo sviluppato partendo dalla nostra ricerca condivisa sul potenziale della solidarietà transnazionale. Il nostro lavoro sulla radio è iniziato con un interesse per il suo essere storicamente di “larga scala”; ad esempio la radio è stato uno strumento coloniale, in particolare nel caso del mandato britannico in Palestina. Ho iniziato a esplorare i modi in cui la radio è stata storicamente uno strumento del potere imperiale, che in Palestina ha disegnato il quadro per il controllo israeliano delle telecomunicazioni come parte di un’architettura di occupazione. Allo stesso tempo abbiamo esplorato i modi in cui la radio, attraverso disparate lotte politiche, è stata una piattaforma per la resistenza e un mezzo che può portare a un ideale comune. Oltre al suo significato come apparato e infrastruttura, la radio è il fenomeno naturale più antico del mondo, è pre-umana e pre-biologica. Le funzioni radio, come la luce, sono su scala più grande di quella planetaria. Le onde elettromagnetiche sono in costante oscillazione: puoi usarle per sentire un tuono all’altro capo del mondo o praticare la radioastronomia. La portata e le frequenze delle onde radio dipendono dai contorni del paesaggio terrestre e siamo eccitati dall’idea che la radio non possa riconoscere fisicamente confini geopolitici o confini planetari. Siamo interessati al potenziale politico latente in questo. Al di là della ricerca, Radio Earth Hold ha prodotto tanto materiale: proiezioni, sessioni di ascolto, discussioni con artisti brillanti e interlocutori che lavorano su suono / potere / attivismo / storia e la creazione e la messa in servizio di trasmissioni per la radio. È possibile ascoltare un’introduzione più lunga alla nostra ricerca qui.
> M: Sei molto interessata alla storia dell’abbigliamento in Medio Oriente e in particolare alla pratica del ricamo: hai curato la mostra Unraveled, presso il Beirut Art Center, che ha visto la presenza di un gran numero ndi artisti che utilizzano il ricamo come pratica artistica, come Alighiero Boetti e Mona Hatoum. Pensi che ci sia un crescente interesse verso le forme tradizionali di artigianato e il loro rapporto con l’arte contemporanea?
Il mio lavoro curatoriale nel settore tessile è iniziato al Museo palestinese, a Birzeit, in Cisgiordania, dove sono stata curatorice per cinque anni, e ho sviluppato tre mostre e due pubblicazioni sui ricami e sui vestiti palestinesi. A Seams, 2016, e Labour of Love, 2018, hanno avuto il genere, il lavoro, l’appartenenza di classe e la merce come temi chiave, esaminando come la storia del ricamo abbia plasmato la sua politicizzazione dopo la Nakba del 1948 (quando Israele dichiarò l’indipendenza, uccidendo, perseguitando e spostando centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case). Le mostre descrivevano il ruolo del ricamo e dell’abbigliamento nella visualizzazione del nazionalismo palestinese – un processo che sostengo essere fondamentalmente legato a particolari ideali e immagini del corpo femminile – e all’espressione della resistenza durante la Prima Intifada. Al contrario, Unraveled, co-curata con Marie Muracciole, è stata un’opportunità per andare oltre la Palestina ed esplorare come gli artisti contemporanei in Medio Oriente e altrove si siano impegnati e ampliato il potenziale materiale e concettuale dei tessuti.
Tra le fiere d’arte e le istituzioni che visito costantemente, ho notato sicuramente più lavori basati sui tessuti negli ultimi anni. Ci sono sempre stati artisti che lavorano con i tessuti e i ricami, fatti a mano o prodotti in serie, ma sembra più che altro che questa pratica abbia raggiunto il mercato e i musei, guadagnandosi spazio nelle mostre, ma assumendo potere “a muro”. Anni Albers ha avuto per esempio una grande retrospettiva alla Tate Modern. Dubito in realtà che questo sia guidato dall’incremento dell’interesse per l’artigianato, o forse lo è solo in alcuni casi. Suppongo che abbia più a che fare con una sua riconsiderazione in termini di prestigio nel contesto culturale. Dieci anni fa pochi consideravano il ricamo nell’arte contemporanea particolarmente attuale. Ciò che era laborioso e fatto a mano era considerato banale, un po’ imbarazzante e non attraente; oggi il discorso si è spostato. Forse parlare di tessuti e ricamo è da ritenersi piacevole e attuale dopo decenni di dominio del digitale e la sua autenticità percepita come accattivante e delicata, rispetto allo “splendore” che ha caratterizzato gli anni 2000. Forse le persone stanno riconoscendo quanto possono essere articolati i tessuti e quanto siano intimi sinao gli incontri che celano. Almeno lo spero.
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Rachel Dedman è una curatrice e scrittrice indipendente di base tra Beirut e Londra. Lavori e ricerche recenti includono progetti per Ashkal Alwan (per Home Works 8) e Sursock Museum, Beirut Art Fair, Nadim Karam, Kettle’s Yard di Cambridge, Tricycle Theatre di Londra; e la mostra Jerusalem IX. Per cinque anni, Rachel è stata curatrice al Museo palestinese di Ramallah, dove ha sviluppato mostre e ha scritto volumi sulla politica del ricamo, dei tessuti e dei vestiti palestinesi. Rachel è co-editore di polycephaly.net e co-fondatrice di Radio Earth Hold, un collettivo supportato dalla Serpentine Gallery, che commissiona trasmissioni radiofoniche agli artisti. Rachel ha studiato storia dell’arte al St John’s College di Oxford ed è stata Von Clemm Postgraduate Fellow presso l’Università di Harvard, specializzata in arte contemporanea del Medio Oriente. Attualmente è membro del forum di Art Dubai.
22/06/2019