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JOSEPH DESLER COSTA

M: The Violent Sequence (2016) è l’opera video con cui hai partecipato a DIGITAL VIDEO WALL, progetto a cadenza annuale promosso da metronom. All’interno della tua produzione, qual è il ruolo della ricerca sulle modalità espressive della video arte?

JDC: Film e video sono sempre stati una parte importante della mia pratica. L’immagine in movimento e il fermo immagine sono indissolubilmente legati. A partire dai primi studi sul movimento di Muybridge, alle moderne tecnologie di creazione di immagini che consentono alla maggior parte delle fotocamere e dei telefoni di riprendere sia immagini fisse che video, oggi la linea già sottile che separa i due mezzi non è mai stata meno definita. Da studente ho studiato regia all’EICTV a Cuba ed ero molto interessato all’immagine in movimento per il suo potenziale narrativo. Poi, quando mi sono trasferito per la prima volta a New York, mentre lavoravo come assistente per l’artista Josephine Meckseeper, ho iniziato a sviluppare una concezione meno rigida di film e video. Lavorando come editor video con Meckseeper, ho iniziato a comprendere e utilizzare l’immagine in movimento come estensione della creazione di immagini fisse e viceversa. Ho compreso ci fosse un potenziale nella video arte al di fuori dei normali parametri con cui ero abituato a lavorare. È stato davvero liberatorio e mi ha permesso di incrociare più facilmente idee e progetti tra lavori fotografici e video.

M: The Violent Sequence è un omaggio a Michelangelo Antonioni: prende il nome da un brano dei Pink Floyd registrato come colonna sonora per l’ultima sequenza di Zabriskie Point (1970). Quando e in che modo ha incontrato per la prima volta il lavoro di Antonioni?

JDC: Sono entrato in contatto per la prima volta con il lavoro di Antonioni alla scuola di cinema a Cuba. La cruda bellezza fotografica di Il Deserto Rosso mi ha colpito con ogni inquadratura e angolazione che sembravano così calcolate e concise. Antonioni è così diretto, eppure così libero: questo mi ha attratto e mi attrae ancora. Quando mi sono imbattuto in Zabriskie Point, ricordo di aver guardato la scena finale dell’esplosione più e più volte. La dipendenza della scena dalla musica e la sua rappresentazione di bellezza, violenza e grottesco allo stesso tempo sono sempre rimaste impresse in me e hanno ispirato il mio video.

M: Come si relaziona questo lavoro con la cultura visuale americana?

JDC: Zabriskie Point è stato il primo film hollywoodiano di Antonioni e per molti versi è stata una critica non solo di Hollywood, ma anche della cultura americana e della sua superficialità iper-consumistica. La scena finale dell’esplosione è una sorta di rimprovero e atto di violenza contro questo sistema. Zabriskie Point è stato un totale fallimento commerciale. È il primo e l’ultimo film che Antonioni abbia mai realizzato per Hollywood e illustra la sua visione di critico esterno della cultura americana. Antonioni ha scartato la canzone originale (intitolata The Violent Sequence) che i Pink Floyd avevano scritto per la scena perché era “troppo gentile” e non abbastanza violenta o aggressiva. Vedo il mio video come una sorta di aggiornamento sulla visione di Antonioni del consumismo e della cultura visiva americana. Volevo farne una versione molto meno violenta e molto più metodica e ripetitiva nella sua bellezza e volgarità. Proprio come la canzone originale dei Pink Floyd scartata.

M: The Violent Sequence è anche una riflessione sul fascino e sulle trappole del consumismo e del desiderio in un mondo dalle dinamiche on-demand. Questo lavoro può essere definito come una critica verso la cultura occidentale del consumo?

JDC: Non sono sicuro che sia critico nei confronti della cultura consumistica occidentale quanto più una sua accettazione rassegnata. Piuttosto che distruggere beni di consumo come Antonioni, la mia Violent Sequence dipinge un mondo in cui gli oggetti orbitano intorno a noi in un pacifico ritmo ciclico. Rappresenta un paesaggio contemporaneo in cui tutto ciò che si desidera è disponibile in qualsiasi momento, sempre. C’è una bellezza in questo fatto, ma anche una realtà esistenziale molto deprimente. Una realtà che è diventata ancora più evidente durante la pandemia. Siamo separati. Soli con le nostre cose. Non riesco a vedere un amico, ma posso ordinare che tutto ciò che desidero su Amazon arrivi domani e contribuire a colmare o calmare il vuoto che sento.

M: Sei anche professore al BFA Photography and Video presso la School of Visual Arts di New York. L’insegnamento influisce in qualche modo sulla tua pratica artistica? Quanto è importante il tuo rapporto con gli studenti e come li sproni a impegnarsi nel loro lavoro in questi tempi di istruzione a distanza?

JDC: Trovo l’insegnamento molto gratificante e importante per la mia pratica. Mi tiene allenato in un certo senso. Non posso permettermi il lusso di cadere nella pigrizia. L’insegnamento mi costringe a tenermi informato su arte contemporanea, mostre, letture e persino tecnologia. Mi espone anche alle opinioni spesso fresche dei giovani artisti alle prese con i primi tentativi di creazione di immagini. Spesso può aprire gli occhi e ispirare. Mi piace anche mostrare loro su cosa sto lavorando. Mi piace non solo ricevere le loro opinioni, ma trovo anche che sia un ottimo test vedere come mi sento quando li osservo mentre guardano il mio lavoro. Insegnare durante la pandemia è stato a dir poco una sfida. Sto facendo del mio meglio per adattarmi, ma non vedo l’ora di essere lì fisicamente a contatto con gli studenti. Penso che trovare una comunità sia l’aspetto più importante dell’essere un artista. Imparare a creare connessioni e trovare comunità spesso inizia a scuola, e farlo online è molto più difficile.

 

 

Joseph Desler Costa (Pittsburgh, USA, 1981. Vive e lavora a Brooklyn, New York) è un artista italoamericano che lavora con fotografia, video e nuovi media. Ha conseguito una laurea specialistica presso ICP-Bard College (MFA) e ha frequentato l’Escuela Internacional de Cine y Televisión (EICTV) a Cuba. La pratica di Costa esplora le idee di consumismo, cultura pop, nostalgia e desiderio. Le opere spesso usano il linguaggio della pubblicità per esaminare l’estetica della cultura materiale, del lusso e il modo in cui la percezione della realtà si piega sotto le forze del commercio.

Courtesy Joseph Desler Costa e METRONOM, 2020
Photo: Maria Elisa Graci
23/11/2020