Emil Rønn Andersen
Intervista a Emil Rønn Andersen
a cura di Paola Paleari
Il leggendario futurista e teorico dei media Marshall McLuhan fu profetico sotto molti aspetti. Fin dagli anni Sessanta, egli fu in grado di osservare come tutte le tecnologie, inclusi i supporti elettronici, fossero ambienti: insiemi di strumenti artificiali che tendono a diventare impercettibili mentre progressivamente rimodellano i loro creatori.
“Avanzando, la tecnologia inverte le caratteristiche di ogni situazione. L’età dell’automazione sarà l’età del ‘fai da te'”, ha affermato nel 1957. Tanto quanto la macchina era frammentaria e centralista, così l’automazione è profondamente integrale e decentralizzata. “L’automazione crea dei ruoli per le persone, e così facendo ricostruisce una profondità di partecipazione nel lavoro e nella società che la precedente tecnologia meccanica aveva distrutto” – ha aggiunto, pochi anni dopo, nel suo celebre libro Capire i media. Gli strumenti del comunicare.
Nel campo della fotografia, il ‘medium meccanico’ per eccellenza, parlare di automazione potrebbe suonare un punto di non ritorno. Su larga scala, implicherebbe accettare uno dei principali postulati di McLuhan – ossia che la fotografia, come tutti gli altri media, influenza la società non tramite il contenuto che essa trasmette, ma tramite le caratteristiche del medium stesso. A livello personale, cosa rimane al fotografo, una volta rinunciato al contenuto? Come cambia il ruolo del fotografo, quando è il mezzo stesso a dettar legge?
La ricerca del fotografo danese Emil Rønn Andersen si posiziona esattamente sul bordo tagliente di queste domande, fornendo stimolanti risposte aperte che sono felice di condividere con un pubblico internazionale (non molto materiale in inglese su di lui è presente nel web).
Come hai iniziato a lavorare con la fotografia?
Ho avuto modo di sperimentare con la macchina fotografica da quando avevo sedici anni, giocando inizialmente con la fotografia analogica e successivamente lavorando come apprendista per un fotografo commerciale. L’ho fatto per quattro anni, e poi mi sono iscritto alla Accademia d’Arte di Malmö, in Svezia.
Quando hai intrapreso la tua ricerca artistica personale?
Dopo aver frequentato l’Accademia d’Arte di Malmö, ho ottenuto il mio Master in Belle Arti presso l’Accademia Reale Danese a Copenhagen, specializzandomi in “time-based media” sotto la guida di Gerard Byrne.
Per me, lavorare nel settore commerciale è stata una formazione nel mestiere. Ho acquisito una comprensione della produzione in questo settore della fotografia, che tuttora applico ai miei progetti su diversi livelli.
Avendo cominciato a lavorare con la fotografia commerciale da molto giovane, ero pieno di aspettative ingenue; mi ricordo per esempio la frustrazione della mancanza di un linguaggio per descrivere quello che facevamo, e perché. Una grande parte del processo decisionale deriva da un complesso pool di norme comportamentali che raramente viene articolato o rimesso in discussione. Questa frustrazione in definitiva mi ha spinto ad iscrivermi alla scuola d’arte, nella speranza di scoprire un vocabolario più sviluppato in relazione all’immagine.
Cosa ricerchi nella tua pratica artistica? C’è un discorso principale che sviluppi attraverso diversi progetti, oppure ogni progetto è diverso dall’altro?
La mia ricerca recente ruota essenzialmente attorno alla medesima intenzione, ossia inventare e sviluppare uno specifico apparato tecnico – chiamiamolo un sistema – che costruisce immagini. Sono molto interessato alle possibilità e alle implicazioni dell’automazione, nel mio studio e fuori da esso. Spero che il mio lavoro stia in qualche misura esemplificando alcune sfumature all’interno di una discussione più ampia su come stiamo riordinando la nostra posizione nel mondo in relazione alla tecnologia attuale e futura. Trovo interessante osservare come siamo passati dai processi basati sullo strumento ai processi orientati al sistema, in cui gestiamo sistemi invece di maneggiare direttamente uno strumento e un materiale. Questo cambiamento non è una novità assoluta, ma è più evidente che mai, e viene applicato a nuovi domini ogni giorno di più. La tecnologia non si sta adattando al mondo in cui viviamo, ma piuttosto ne sta adottando uno tutto suo. Sono fondamentalmente interessato a che tipo di mondo questo potrebbe essere.
Quando usi la parola ‘automazione’, penso subito ai robot. Ma credo che non si tratti solo di questo…
Sicuramente i robot sono parte del discorso, ma il punto non è tanto sui robot stessi, quanto sulle implicazioni del loro uso.
Prendere l’arrampicata indoor come esempio potrebbe essere un buon modo per spiegare il mio approccio. Le strutture di arrampicata indoor sono nate come impianti di allenamento che simulano le rocce naturali allo scopo di rendere possibile arrampicarsi in città, in preparazione di quello che alcuni chiamerebbero ‘la vera arrampicata’ – in montagna, in scogliera, sui massi e così via. Dopo un po’, questo sport è diventato molto popolare anche tra chi non si è mai arrampicato all’aperto. La cosa particolare è che improvvisamente queste strutture hanno iniziato ad evolversi, introducendo strane forme geometricamente astratte alle pareti, invece di limitarsi a imitare le forme naturali della roccia. Ciò ha fatto sì che le persone iniziassero ad arrampicarsi in modo leggermente diverso – le mosse e la presa hanno dovuto adattarsi a queste nuove forme.
Il rapporto tra la simulazione (l’impianto di arrampicata indoor) e l’astrazione (della forma della roccia naturale) è un esempio di come una simulazione si ritrae dalla sua origine e diventa un’astrazione a sé stante. È possibile utilizzare questo esempio per capire come si evolve la tecnologia. Il mio interesse fondamentale nell’applicare l’automazione alla produzione è meno sulla simulazione della fotografia convenzionale, e più sulle astrazioni che possono sprigionarsi da questo processo e sulla sperimentazione delle loro implicazioni.
Come applichi questo approccio scientifico verso l’automazione nei tuoi progetti fotografici?
Cerco di essere non deterministico in relazione ad un risultato fisso. Attualmente sto lavorando alla creazione di un’immagine che sia consapevole del contesto (“context-aware”, NdA). Se trovo qualcosa di più interessante lungo la strada, cambierò corso.
Un esempio di applicazione dell’automazione nel mio lavoro è Automate and Perish, il titolo di una serie che ho realizzato nel 2014 per una mostra presso la Danish Graphic Society a Copenhagen. Il progetto consiste in 156 fotografie dello stesso soggetto, una natura morta composta da una sfera di metallo, una piastra di rame e un tubo specchiante. Tutte le immagini sono state prodotte automaticamente da quello che sarebbe poi diventato il sistema con cui sto lavorando attualmente. L’interazione degli oggetti con la luce era regolata da un braccio meccanico dotato di lampade. Ho posizionato gli oggetti al centro dello studio e il sistema ha fatto il resto: il braccio definiva gli schemi luce sul comando di quattro script, e la macchina fotografica catturava automaticamente un’immagine ogni volta che il braccio si trovava in una determinata posizione lungo il suo percorso.
A quel punto della mia ricerca, il sistema non era totalmente controllato e il risultato era ancora più o meno casuale. Ora, invece, posso controllare ogni colore, quasi ogni pixel, simulando tutti i tipi di ambienti standardizzati utilizzati nella fotografia: la spiaggia, il paesaggio urbano, lo schermo verde, diversi gradienti di colore e così via. Istruisco il sistema su quale sfondo e tipo di illuminazione voglio, lo avvio e poi raccolgo i file una volta che ha finito la sua sequenza.
Hai scoperto quali sono gli effetti di questo ‘sistema-mimo’? Quali nuove opportunità si sono aperte simulando il processo della fotografia in studio?
Sono nel bel mezzo dello sviluppo del sistema, quindi non posso prevedere alcun esito finale – che, nella mia mente, è il posto più eccitante dove essere. In ogni caso, anche se è solo un passaggio intermedio, il sistema può già avere alcune conseguenze pratiche. Per diversi motivi sarà il mio lavoro futuro a fornire la risposta alla tua domanda.
Su un piano più astratto, può il tuo lavoro essere visto come un’auto-riflessione sul linguaggio fotografico?
Sì. Tornando all’esempio dell’arrampicata indoor, tutto ciò che ho fatto fino a questo punto è simulare la roccia naturale.
Sia gli oggetti specchianti di Automate and Perish che il busto che ho utilizzato per una serie successiva hanno una funzione pratica, nel senso che sono serviti come soggetti nel processo di calibrazione del sistema alle forme antropomorfe e artificiali. Funzione a parte, nella mia comprensione tali oggetti sono retoricamente caricati, dato che appaiono descrittivi verso il modo stesso in cui vengono fotografati. Quindi sì, penso che il lavoro rifletta su diversi aspetti propri del linguaggio fotografico.
Per riassumere, quando si mima una tecnologia con un’altra, ci si rende conto che un’esecuzione leggermente diversa consente comportamenti diversi e forse anche funzioni completamente differenti. Sto solo esplorando questi diversi comportamenti, e mostrando frammenti del processo che sta dietro lo sviluppo di una tecnologia.
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Emil Rønn Andersen, nato nel 1986, ha ottenuto un Bachelor in Belle Arti presso la Malmö Art Academy (S) e nel 2015 si è laureato presso la Royal Academy of Fine Arts di Copenhagen (DK). Emil ha esposto sia in Danimarca che a livello internazionale. Lavora tra Copenhagen e New York.
Paola Paleari, nata nel 1984, è critico, redattore e curatore indipendente. Il suo principale ambito di interesse è il linguaggio fotografico e le sue relazioni con le pratiche artistiche visive.
Tra i suoi progetti, è vice caporedattore di YET magazine, pubblicazione dedicata alla fotografia internazionale, e membro di artnoise, rivista online e collettivo curatoriale focalizzati sull’arte e la cultura contemporanea. Attualmente vive a Copenhagen (DK).
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L’intervista è parte del Focus On CPH curato da Paola Paleari per YET magazine. Focus On CPH raccoglie interviste, saggi ed articoli dedicati a fotografi, autori, editori, curatori e protagonisti della scena fotografica danese con base a Copenhagen. La traduzione in italiano è a cura dell’autrice.
La versione originale in lingua inglese dell’intervista è consultabile a questo link.
Didascalia: Emil Rønn Andersen, Automate and Perish, Danish Graphic Society, Copenhagen (DK), 2014.
© Emil Rønn Andersen, 2014.
27/09/2016