CHRISTIAN CALIANDRO
Generazione Critica: Il tuo ruolo come insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia negli ultimi sei anni, e ora di Firenze, e la direzione del progetto “La Chimera – Scuola d’arte contemporanea per bambini” ti permette di avere un riscontro con studenti di diverse fasce d’età e diversi approcci all’arte. Considerando queste esperienze di insegnamento che caratterizzano la tua carriera, quali sono gli stimoli e le riflessioni che nascono dal confronto continuo con i tuoi studenti?
Christian Caliandro: La didattica è parte integrante, e fondamentale, della mia ricerca. Prima ancora del 2016 ho insegnato anche allo IUAV di Venezia e allo IULM di Milano durante i miei assegni di ricerca post-dottorali. Sono dunque più di dieci anni che sono a contatto con studenti ventenni, e ho potuto vedere in questo periodo anche l’evoluzione di queste ormai due generazioni. Virtualmente ogni articolo, ogni saggio, e naturalmente il manuale Storie dell’arte contemporanea (Mondadori Education 2021), sono nati dal confronto costante e dal dialogo con gli studenti, durante i corsi (sia quelli di carattere maggiormente storico, sia quelli più tematici). Inoltre, questi studenti sono già autori e autrici con una poetica in molti casi abbastanza definita, e soprattutto sono gli artisti dell’immediato futuro: per me è dunque molto importante, oltre che piacevole, essere esposto continuamente a nuove idee e prospettive.
GC: Contestualmente all’esperienza di “La Chimera”, l’educazione nella scuola dell’infanzia e primaria può essere una grande risorsa per la formazione di giovani e adulti consapevoli non solo dell’aspetto creativo ma anche di comunicazione e fruizione. In questo senso quali sono gli elementi principali da tenere in considerazione nella strutturazione del programma educativo?
CC: Sì, della centralità dell’arte e della creatività contemporanea fin dai primi anni dell’educazione sono fortemente convinto, insieme ad Angela D’Urso che dirige il progetto “La Chimera – Scuola d’arte contemporanea per bambini” presso TEX-ExFadda a San Vito dei Normanni (BR). Fin da quando abbiamo iniziato queste residenze – per artisti midcareer e anche per artisti giovanissimi, in molti casi provenienti proprio dalle Accademie di Belle Arti – abbiamo deciso di impostare questi laboratori destinati a bambini tra i 6 e i 12 anni sul processo più che sull’oggetto, sul funzionamento interno dell’opera più che sulla sua “formalizzazione finale”. Il risultato è stato di volta in volta, anno dopo anno, molto interessante e stimolante, e anche in questo caso lo scambio tra ‘grandi-artisti’ e ‘piccoli-artisti’ è stato biunivoco e non banale.
GC: L’essere inserito all’interno dell’Accademia in qualche modo ti offre una posizione privilegiata per osservare le nuove tendenze delle giovani generazioni di artisti. Nelle tue ricerche sullo stato dell’arte contemporanea, anche all’interno del sistema educativo italiano, sembra però preponderante la costatazione di un pesante retaggio della tradizione più che sperimentazione come ci si aspetterebbe in un contesto formativo. Questo rende spesso difficile un confronto alla pari a livello quantomeno europeo, più ‘libero’ da eredità culturali e più propenso alle nuove aperture. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento da perseguire nell’ottica di raggiungere nuovi sviluppi nel panorama artistico italiano?
CC: Devo dire che questa ‘pesantezza’ (la dipendenza eccessiva, e in molti casi derivativa, dal passato recente e dalle sue forme: l’usare cioè spesso quelle forme come “gusci”, svuotandole del loro portato utopico e delle loro istanze originarie) è una tendenza che nell’ultimo quindicennio ho riscontrato soprattutto, con alcune luminose eccezioni, negli artisti della mia generazione e di quelle immediatamente precedenti e successive (quindi, per intenderci, i quaranta-cinquantenni). Mi sembra che gli autori e le autrici più giovani siano in parecchi casi più liberi, e che questa libertà emerga spontaneamente anche nel contesto formativo-educativo dell’Accademia: nel senso che essi sono maggiormente orientati a una dimensione autenticamente – e non retoricamente – partecipativa, collaborativa. E a vedere che succede nel momento in cui l’opera rifiuta di entrare ed essere fruita nello spazio espositivo tradizionale, e si inoltra nel mondo. Questa è in assoluto la dinamica che in assoluto mi interessa di più.
GC: Nei saggi “Italia Revolution” (2013) e “Italia Evolution” (2018) ritorni su questa problematica proponendo un’analisi sociologica secondo la quale nel corso degli ultimi decenni è avvenuto un lento ma costante indebolimento del pensiero politico che ha portato anche ad un consequenziale distacco dalla realtà. Tutto ciò si è poi irrimediabilmente riversato nel contesto culturale e artistico che è rimasto bloccato e distante. Guardando ai tuoi interventi ad anni di distanza, quali sono i cambiamenti che puoi riscontrare nel presente? Inoltre, è possibile riconoscere l’indebolimento a cui fai riferimento anche nel contesto artistico italiano?
CC: Quella analisi era iniziata già con Italia Reloaded (2011), il libro scritto a quattro mani con Pier Luigi Sacco. Nel corso del successivo decennio – con Italia Revolution e con Italia Evolution – ho potuto verificare come in effetti questo fenomeno di vera e propria dissociazione dalla realtà abbia radici profonde che vanno individuate da una parte nei cosiddetti “anni di piombo”, ma che dall’altra risalgono al periodo della Controriforma, accentuandosi sempre più, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. In generale, ho capito una cosa apparentemente banale, ma che non è così scontata: quando arte e cultura diventano elementi di finzione e/o di autoconsolazione, e non sono gli strumenti di uno scavo nella propria identità personale e collettiva, allora abbiamo un problema. Perché si allontanano in maniera pericolosa dalla ‘verità’ intesa come comprensione della realtà nelle sue dimensioni, e si rifugiano nella conferma del già noto – o, che è ancora peggio se possibile, di ciò che supponiamo di conoscere. Ma, ovviamente, ci sono stati e ci sono sempre negli ultimi dieci anni semi di futuro, modelli cioè di un modo di esistenza comune alternativo, assolutamente possibile: in molti casi, questi semi e questi modelli sono opere d’arte visiva.
GC: Nel 2022 hai pubblicato “L’arte rotta” per Castelvecchi: sembra esserci stato un salto abbastanza importante che ti ha portato dal concepire evoluzioni e rivoluzione per il contesto culturale italiano ad un atteggiamento forse più rassegnato. Cos’è cambiato in questi anni? E come le difficoltà passate anche a causa della pandemia hanno influenzato il tuo pensiero riguardo?
CC: In realtà, mi sembra che L’arte rotta prosegua in maniera abbastanza coerente l’indagine di un’evoluzione in atto nell’arte e nella società contemporanea. Certo, il linguaggio ha un ruolo molto più centrale in questo caso rispetto ai saggi precedenti: quindi, L’arte rotta mescola (in maniera spero interessante) la critica d’arte, il diario, il memoir, la cronaca. Detto questo, la pandemia – che nel libro ha un ruolo centrale – è stato un vero spartiacque, una gigantesca interruzione che però ci ha permesso in alcuni casi, a patto di essere aperti e disponibili, di sperimentare in modo approfondito e concentrato approcci e punti di vista diversi nei confronti della vita e dell’arte. Poi, l’arte rotta se vogliamo ha un doppio significato: da una parte indica l’arte istituzionale, elitaria, rinchiusa negli spazi espositivi e nel cosiddetto “sistema” (che infatti, una volta dichiarata ufficialmente la ripartenza, ha ripreso esattamente dallo stesso punto, anzi con ancora più foga e accelerazione se possibile…), spettacolarizzata, ridotta a strumento finanziario e a bene di consumo; ma è anche – come per esempio suggeriva Jack Kerouac a proposito del temine “beat” – rotta in un senso per così dire più positivo, costruttivo: un’arte battuta, interstiziale, marginale ma proprio per questo visionaria e radicale, più in rapporto con la vita quotidiana e con la realtà di tutti (vale a dire: con il contemporaneo).
GC: “Oggi, stiamo attraversando un momento storico che richiede con altrettanta urgenza di ricomporre questa frattura – questa rottura – che si è creata di nuovo tra arte (…) e «ciò che dobbiamo fare ogni giorno».” Con queste parole concludi il tuo saggio “L’arte rotta”: oltre all’attestazione di questa frattura, quali potrebbero essere tempi, modi e luoghi per sanarla?
CC: Sì, queste parole che concludono il libro sono quelle di Judith Malina, fondatrice del Living Theatre insieme a Julian Beck (la quale a sua volta basava la sua visione su quella del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud). Secondo me i termini sono sempre quelli, allora – negli anni Sessanta e Settanta, così come negli anni Venti e Trenta – come oggi: cambiano le modalità, gli strumenti, i linguaggi, ma non l’approccio di fondo. La “disposizione d’animo”, per così dire.
Si tratta in definitiva (come del resto sta già in parte accadendo, in qualche caso…) di confondere e intrecciare e sovrapporre e mescolare il più possibile l’arte e l’esistenza, l’opera e il mondo. Fino quasi a non distinguere l’una dall’altro.
GC: Svolgi contestualmente l’attività di giornalista, certo anche nel contesto dell’informazione la cronaca e l’approfondimento culturale hanno visto cambiamenti profondi. Non solo in termini di spazio dedicato (sempre meno) ma anche di approccio e di figure di riferimento. È solo una questione di ‘crisi’ dell’informazione o è anche una questione di omologazione? Cioè anche la critica, non solo l’arte, può considerarsi ‘rotta’?
CC: Certamente, la critica non solo è rotta, ma da quello che si vede è quasi del tutto inesistente (e non è solo un problema italiano), tranne naturalmente alcune valide eccezioni, che però rimangono, appunto, eccezioni e non costituiscono la norma. Del resto, lo si può constatare non solo nel territorio dell’arte contemporanea, ma anche in quello del cinema, della letteratura, della musica… Dopo di che, io su “Artribune” mi occupo quasi esclusivamente dei pezzi per la rubrica inpratica che curo da quando è nata la rivista, nel 2011, e che sono sempre strutturati come serie; molto raramente infatti scrivo recensioni, di mostre o di film.
Credo che uno dei problemi centrali dell’epoca che stiamo vivendo sia quello della progressiva semplificazione a cui sono stati e sono sottoposti gli oggetti culturali e le opere d’arte (a cui corrisponde, ovviamente, la semplificazione dell’interpretazione di questi oggetti e di queste opere, cioè dell’informazione e della critica). Oggi, l’opera d’arte per essere efficace deve essere “incisiva” come uno slogan o un ritornello, deve saper “comunicare” immediatamente e in maniera inequivocabile il suo senso – che sarà quindi univoco, mai ambiguo… Un sistema del genere non è molto salutare né divertente – e, certamente, non è un sistema che favorisca in alcun modo l’avanguardia o la radicalità delle idee.
GC: Per concludere, spazio ai progetti futuri: a cosa stai lavorando? Un libro? Una mostra? O tutti e due…?
CC: Tutti e due. Sto preparando per il Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino la “mostra” con i risultati finali delle residenze di quest’anno (con Elena Bellantoni, Serena Fineschi e la giovanissima Elisa Merra) del progetto Cantieri Montelupo, che unisce arte contemporanea e ceramica attraverso la relazione, cioè l’elemento più immateriale che ci sia: naturalmente, non sarà una “mostra” tradizionale, e sarà visitabile a partire dal 26 novembre. Inoltre, sto lavorando a un nuovo libro che parte dal punto in cui L’arte rotta si concludeva.
03/11/2022