BRUNO BARSANTI
Generazione Critica: Dal 2021 sei il direttore della Fondazione Elpis a Milano con cui già avevi collaborato come curatore per il progetto “Una Boccata d’Arte”.
Un nuovo soggetto culturale pone sempre delle sfide per chi lo gestisce e ne cura le attività, quali sono i punti fermi progettuali di questa esperienza professionale, nuova sotto diversi punti di vista?
Bruno Barsanti: Nonostante il cambio di prospettiva da curatore di un singolo progetto a direttore sia notevole, i punti fermi e le basi progettuali continuano a rispecchiare gli obiettivi della fondazione, creata nel 2020 da Marina Nissim con lo scopo di immaginare e dare vita a spazi inediti di espressione per gli artisti italiani e stranieri, con una particolare attenzione alle ultime generazioni. Il mio nuovo ruolo ha avuto inizio in una fase di transizione molto importante e con diverse sfide progettuali all’orizzonte, su tutte il consolidamento di Una Boccata d’Arte – giunto ormai alla terza edizione con la collaborazione di Galleria Continua e la partecipazione di Threes – e l’apertura di una nuova sede espositiva della fondazione a Milano, in zona Porta Romana. Le attività proseguiranno quindi su due livelli, da una parte l’esplorazione del territorio nazionale e in particolare dei piccoli borghi e delle aree interne, dall’altro un programma legato alle arti visive (e non solo) in un grande centro urbano e culturale come Milano.
GC: Il progetto “Una Boccata d’Arte”, promosso dalla Fondazione Elpis, si configura come un nuovo approccio alla progettualità culturale, con la condivisione e il network di soggetti ed esperienze che fino a prima della pandemia difficilmente era possibile mettere a sistema.
Una delle sfide di ampliare gli spazi di progettazione e fruizione è quella di coinvolgere un pubblico non necessariamente competente e informato, come si può gestire questo aspetto divulgativo pur mantenendo coerenza progettuale e rispetto per il lavoro e la pratica degli artisti?
BB: Una Boccata d’Arte si fonda su un incontro essenziale, quello tra il ricchissimo patrimonio materiale e immateriale – spesso poco conosciuto – del nostro paese e la visione specifica degli artisti coinvolti nei diversi borghi, portatori di un punto di vista esterno rispetto agli abitanti. In questo senso la trasmissione di saperi e conoscenze avviene in entrambe le direzioni e non è unidirezionale, così come l’arricchimento è reciproco, a condizione che lo sia anche l’ascolto. Fondamentale in quest’ottica è il prezioso lavoro di mediazione svolto dai coordinatori regionali e dalle associazioni locali presenti sul territorio. Ogni anno il progetto diventa realtà grazie a una rete che di volta in volta si arricchisce di centinaia di persone dal background più disparato. Potremmo quindi parlare di competenze e informazioni in senso allargato, rispetto alle quali tutti hanno potenzialmente qualcosa da imparare. Noi in primis.
GC: Dal 2016 al 2018 sei stato parte del team curatoriale di “The Others”, fiera indipendente che ha sede a Torino. In che modo hai abbracciato la sfida di proporre una fiera d’arte che cercasse di creare un cortocircuito nel sistema dell’arte autoreferenziale, un progetto in certo senso pionieristico. Come analizzi, a posteriori, questa esperienza e questa collaborazione?
BB: È stata un’esperienza fondamentale nel mio percorso professionale. I tre anni trascorsi alla guida del board curatoriale, composto da curatori internazionali attivi in città europee e non solo, mi hanno consentito di costruire un network e approfondire la conoscenza di scene artistiche diverse, con particolare attenzione alle realtà più sperimentali e innovative da un punto di vista sia di programma che di assetto organizzativo. Altra sfida – un classico per The Others – è stata quella di realizzare una fiera d’arte in un luogo fortemente connotato come può esserlo un ex ospedale, circostanza che ai tempi ci aveva portato a creare una sezione speciale dedicata a progetti site-specific che entrassero in dialogo con sale operatorie, sale d’attesa, cucine e altri spazi tutt’altro che neutri. Una sezione in un certo senso estrema, delle pareti bianche non c’era neanche l’ombra!
GC: L’occasione di “The Others” ti ha posto nella condizione di collaborare con altre figure curatoriali, come approcci i progetti condivisi e questo, a tuo parere, incide sulla progettualità?
BB: La maggior parte dei progetti che ho curato sono stati a quattro o più mani, anche prima di The Others. Credo sia una questione di attitudine. La condivisione di un progetto comporta la necessità di trovare fin da subito (o quasi) un terreno comune su cui far confluire ricerche, confronti e discussioni, proteggendo almeno in parte dal rischio di assolutizzazione delle proprie idee e posizioni. Nella mia esperienza la collaborazione non incide sempre allo stesso modo sulla progettualità: a volte può portare a tempi di elaborazione e decisione più lunghi, altre volte può invece contribuire a velocizzare i processi.
GC: Nella pratica curatoriale, soprattutto se esercitata come free lance, il relazionarsi con lo spazio espositivo è una questione ogni volta da affrontare e da declinare, ci fai due esempi di progetti diversi (per luogo e interlocutori) che sono stati complessi e stimolanti e come, cioè con quali punti fermi, hai sviluppato il concept di mostra?
BB: Rispondo con un progetto recente e un altro che ormai ha più di dieci anni. A maggio scorso ho curato con Gabriele Tosi la collettiva Adesso no all’interno di Manifattura Tabacchi a Firenze. La mostra è una reazione a un determinato spazio, un basement usato come locale tecnico che crea un collegamento inaspettato tra il cortile esterno e quello interno di Manifattura. A partire dall’apertura di un nuovo passaggio e dalla presenza massiccia di cavi e canaline abbiamo riunito un gruppo di lavori che affrontano questioni quali la persistenza di stati meditativi, le possibilità di riorientamento e il grado di prevedibilità delle nostre vite in un presente iper-connesso e alla costante ricerca di ottimizzazione algoritmica. Attraverso questo corpus di opere, alcune delle quali realizzate ad hoc o adattate in loco, abbiamo sviluppato l’intera mostra come un dispositivo di dis-orientamento in cui al visitatore venivano progressivamente sottratti appigli e punti di riferimento abituali in un percorso espositivo, un invito a perdersi per ritrovare la propria strada.
Il secondo esempio è un progetto d’arte pubblica realizzato nel 2011 nell’area del porto vecchio di Bari, co-curato con Fabrizio Bellomo. In quel caso eravamo partiti da una mappa interattiva, una sorta di documentario dinamico da cui gli artisti che intendevano partecipare all’open call potevano trarre stimoli e informazioni di varia natura per proporre un progetto da realizzare nell’area. Conclusa la selezione, gli artisti avevano prodotto il loro intervento a Bari interagendo con maestranze e “abitanti” del porto vecchio, in molti casi vedendo le proprie idee iniziali trasformate e rimodulate dall’incontro con il contesto locale. Questa azione di “sovrascrittura” del luogo è stata successivamente assorbita in un docufilm finale che contiene in sé anche parti del primo documentario/mappatura.
In entrambi gli esempi che ho citato lo spazio è una variabile che incide in larga misura tanto sul concept (fino a farne parte), quanto sui meccanismi espositivi che determinano lo sviluppo del progetto.
GC: Committenza e bandi: la pratica del curatore sempre più spesso oggi deve relazionarsi e declinare con queste modalità di produzione, per ragioni di opportunità e sostenibilità dei progetti. Come valuti questo tipo di esperienze sia dal punto di vista del curatore appunto che della tipologia di progetti che, in collaborazione con gli artisti, possono essere realizzati? Ci sono a tuo parere esempi particolarmente virtuosi?
BB: Premesso che non sono un accumulatore seriale di bandi, valuto positivamente esperienze ormai consolidate come Italian Council, ma anche più recenti come Cantica, che danno possibilità ad artisti, curatori e istituzioni di attivare progettualità condivise o, in alcuni casi, creano semplicemente le condizioni per portare avanti un’attività di ricerca che ha bisogno di tempi e spazi non sempre facili da trovare.
GC: Recentemente hai curato la mostra “Adesso no”, insieme a Gabriele Tosi negli spazi di Manifattura Tabacchi a Firenze. Il progetto di Manifattura Tabacchi è molto articolato, tra recupero e riconversione architettonica, operazione culturale e intrattenimento. A tuo parere questa modalità ibrida di contenitore culturale è una pratica episodica e funzionale a specifiche condizioni e luoghi o può diventare un metodo virtuoso?
BB: È difficile dare una risposta univoca a questa domanda. Si tratta di operazioni che risultano virtuose se riescono a creare un equilibrio tra proposta culturale e obiettivi economici e di business. Un aspetto chiave in questi casi è la governance e il coinvolgimento di figure in grado di garantire nel tempo la qualità e la rilevanza della programmazione culturale all’interno di un contesto più ampio e in presenza di interessi di natura diversa, non sempre facili da conciliare.
Bruno Barsanti © Photo: Noemi Ardesi
22/09/2022