STEFANO GIURI
Generazione Critica: La tua formazione da artista ti ha portato all’interno di Manifattura Tabacchi come ospite di una residenza. Da questa esperienza hai poi dato vita, nel 2019, a ‘Toast Project Space’, letteralmente utilizzando il gabbiotto-portineria originale del complesso fiorentino. Rispetto agli spazi ampi e articolati di Manifattura Tabacchi hai scelto di concentrati su uno spazio decisamente piccolo e allo stesso tempo estremamente connotato, cosa ha attivato il tuo interesse e la progettualità che ne è seguita?
Stefano Giuri: Nel 2018 sono tornato a Firenze dopo aver vissuto un anno fuori. E ho iniziato a pensare a uno spazio in cui si potessero sviluppare idee e progetti. Quindi, dopo i primi mesi di residenza, sono stato attratto dall’ex portineria di Manifattura Tabacchi. L’aspetto che più mi interessava di quell’architettura era che potesse rappresentare un limite dimensionale e stilistico. Proprio questi limiti potevano diventare elementi di forza.
GC: Toast Project Space è un esempio di adattamento delle pratiche artistiche a luoghi non convenzionali, un tentativo di sconfinare oltre il classico white cube per sperimentare con nuovi spazi. Nella scena artistica contemporanea sono molti gli esempi di un approccio di questo tipo, se da una parte corrisponde alla volontà di creare nuove esperienze dall’altra pensi che possa anche essere letta come una spinta contro un certo conformismo rispetto ai luoghi deputati alla fruizione e produzione di pratiche artistiche?
SG: Non credo che il conformismo degli spazi espositivi riguardi tanto il tipo di luogo quanto i modi e i tempi con cui opera. Nel caso di Toast, ad esempio, è importante il “vuoto” che separa un operazione dall’altra. Quando non ci sono installazioni spesso le persone domandano “Quando farai la prossima mostra?”; così facendo hanno l’occasione di percepire la spontaneità con cui le cose accadono, forse rimanendo nel dubbio se accadranno o meno. Anche il non intervenire è significante, di modo che la nuda architettura del luogo possa parlare.
GC: Certamente il non agire, così come il vuoto sono condizioni non neutre. Da quello che scrivi sembra che il luogo sia per te tutto sommato marginale rispetto all’azione che si può attivare. La performance è allora forse l’elemento più congeniale? Un accadimento codificato?
SG: Non credo sia marginale rispetto alle azioni. Fare un certo tipo di intervento a Firenze è diverso dal farlo altrove… Nell’ultima mostra inaugurata il 22 settembre, Prede di Lucia Cristiani, lo spazio è stato privato completamente del tetto e delle finestre che lo proteggono In questo senso Lucia rimarca la centralità ma anche la fragilità del luogo…
Si potrebbe dire che lo spazio stesso richieda e inneschi una certa performatività dei corpi che si relazionano con esso.
GC: Lavori come ‘Huracàn’ di Lek M. Gjeloshi o ‘Lavoretto’ di Giuseppe De Mattia che giocano sull’ambiguità del progetto esposto per creare un cortocircuito tra reale e artefatto, sono amplificati in un contesto in cui la destinazione d’uso del luogo non è esposta e visibile. Può capitare che oltre a chi vede ci sia anche chi non vede?
SG: Non posso dire che sia indispensabile vedere. Io mi auguro che lo sia.
GC: La dimensione spazialmente ridotta e architettonicamente delimitata di Toast Project Space permette agli artisti di appropriarsene in modo estremamente personale interpretando lo spazio e sfruttandone le costrizioni. Come hai gestito i diversi interventi e relazioni che intercorrono tra gli artisti e Toast Project Space?
SG: Nel caso di Toast l’inevitabilità di rapportarsi con lo spazio fa emergere le diverse sensibilità e attitudini degli artisti nell’includere o nell’escludere la “realtà” dal proprio operare.
GC: Perché hai virgolettato la parola realtà? E’ un concetto che si teme anche solo di digitare?
SG: Non sicuro che la realtà esista. Se esistesse certamente non sarebbe quella in cui vivo.
GC: Toast Project Space è anche un esempio di una sempre più evidente ibridazione dei ruoli: da artista ti sei ritrovato curatore e direttore di uno spazio in cui a tua volta ospiti diversi artisti. Come sei arrivato a questo passaggio e come riesci a mantenere un equilibrio tra l’artista e il curatore?
SG: Penso che in tutti questi ruoli sia importante mettere in crisi e porsi delle domande su ciò che piace e sui diversi modi di approcciare il processo artistico. In questo senso non c’è molta differenza tra lavorare ad un progetto da artista o lavorare con persone che stimi, abbandonando la necessità di dover definire ruoli o posizioni a favore di un fare arte più libero e interdisciplinare.
GC: Cosa potrebbe essere, in uno dei migliori dei mondi possibili, un ‘fare arte più libero e interdisciplinare’? Ci sono esempi dentro e fuori dai confini italiani ai quali guardi con interesse?
SG: Credo non si tratti specificatamente del ruolo dell’artista o del curatore, quanto dell’attitudine di mettersi a disposizione dell’altro. Ci sono e ci sono stati spiriti che sento affini: Brown Project Space, Cripta747, Sonnenstube, Localedue, Gelateria Sogni di Ghiaccio.
GC: Nel curare il progetto ti piacerebbe poter essere affiancato da altre figure? Toast Project Space potrebbe essere visto come un luogo comunitario in cui non solo diversi artisti ma anche diversi curatori possono dialogare tra loro?
SG: Spesso i progetti di Toast coinvolgono critici e curatori, e artisti che nel tempo hanno contribuito in diversi modi. Come per Prede di Lucia Cristiani, Chunk di Marcello Spada,Candies di Matteo Coluccia curati insieme a Gabriele Tosi o interventi critici come quello di Sonia D’Alto per Cieli Neri di Alice Visentin o Matteo Mottin per Habitat di Namsal Siedlecki. Queste esperienze segnano ancora una volta la caratterizzazione di Toast come luogo ibrido e di incontro di diverse figure pronte a collaborare.
GC: Le diverse esperienze di collaborazioni sono scaturite da un invito (a un curatore, a un artista…) o è nella spontaneità delle relazioni, degli incontri e lasciandosi lo spazio per diversi e inaspettati esiti? Ti è mai capitato di dover mettere dei limiti?
SG: Non ci sono modalità o regole specifiche.Quello che accomuna tutte le collaborazioni è l’interesse verso gli artisti che mi piacciono e con cui ho il piacere di condividere questo progetto. Ovviamente capita che i progetti mutino o si arrestino nel tempo a secondo di vari fattori che sono sempre presenti nella produzione artistica. A Toast il limite non è tanto un’imposizione quanto uno spazio di lavoro.
GC: Arte e rigenerazione urbana, una associazione di termini che si legge molto di frequente tra progettazione culturale e bandi ministeriali, come la interpreti sia da un punto di vista del curatore che dell’artista?
SG: (Segue ululato di Tarzan di Johnny Weissmuller) Sono un convinto sostenitore dell’irresponsabilità dell’arte, quindi mi viene sempre difficile accostare le due cose. Certamente esiste un effetto a cascata rispetto alla produzione artistica in un determinato luogo, ma è un aspetto che non mi sento di considerare.
GC: Nel 2020 Toast Project Space è stato anche il luogo di nascita di ‘Portafortuna Public Program’ in cui realtà indipendenti italiane potevano confrontarsi tra diverse figure e operatori dell’arte contemporanea. Cosa ha significato avviare il programma?
SG: Ai compleanni non si sa mai chi è invitato né dove si finisce.
GC: Anche ai compleanni capitano invitati che disattendono la conferma, o persone che si decide di non invitare più. Ci sono stati gran rifiuti? non chiediamo i nomi e cognomi… basta una risposta a crocetta.
SG: Non che io ricordi.
GC: Quali sono gli obiettivi futuri di toast project?
SG: Sicuramente la possibilità di dare continuità alla programmazione. Inoltre voglio lanciare un franchising di spazi progetto o di paninoteche.
06/10/2022